don Nicola Modarelli

Una persona ha bisogno, nel succedersi dei giorni, di piccole e grandi speranze: essere corrisposto nell’amore, ricevere un riconoscimento professionale, aver successo in una impresa, guarire da una malattia, risolvere positivamente una crisi. Queste aspirazioni alla felicità, questi desideri di crescita, queste attese di miglioramento sono i motori che spingono la vita, la tengono in cammino, la muovono in avanti. Ogni volta che noi spendiamo energie nel lavoro, attiviamo il pensiero nello studio o coinvolgiamo gli affetti in una relazione, mettiamo in campo dosi di speranza che sono in grado di mobilitare la nostra routine, giustificare i nostri impegni, portarci a fare anche gesti eroici.

All’opposto, chi non spera più in niente si rassegna a sopravvivere o peggio si lascia spegnere. Ne sono figura evangelica quei due discepoli che dicono con il volto triste: noi speravamo che fosse Lui a liberare Israele. Se da una parte può capitare che le nostre aspettative non si compiano, e causino frustrazione, delusione e amarezza, sconforto, dall’altra può capitare che siano soddisfatte, e che ci rechino quini felicità e compiacimento. Inoltre, sappiamo che quando una speranza è soddisfatta, subito ne sorge un’altra. Di fatto, sempre si spera in qualcosa in più. Per i cristiani, l’unica speranza che, soddisfa, non ha bisogno di anelare qualcos’altro, è quella soprannaturale. Essa spera appunto la vita eterna, promessa da Dio a coloro che lo amano e fanno la sua volontà. In un certo senso, la speranza soprannaturale assume tutte le speranze naturali che ispirano le attività degli uomini. Malgrado tutta la loro fugacità, nelle nostre decisioni e azioni noi continuiamo a investire in queste speranze feriali. Non solo noi individualmente, ma anche socialmente. Infatti, la singola persona vive dentro una rete di rapporti che è la comunità. Le speranze degli individui si travasano nella comunità e le speranze che sostengono una comunità influenzano gli individui. Esiste un osmosi della speranza tra i singoli e società. Per questo si parla anche di speranza sociale, intendendo la passione con cui la società getta avanti a se lo sguardo, si da degli obiettivi, si muove su orizzonti di futuro. Il termometro della speranza sociale è dunque la progettualità: là dove prevalgono lamento, nostalgia e rimpianto del passato, il grado di speranza sociale è basso; è alto al contrario, là dove si diffondono spirito d’iniziativa, capacità di sognare e fiducia nel futuro. Sotto il profilo della pratica, la speranza cristiana si snoda attraverso tre fasi: leggere e interpretare i segni di speranza presenti nel mondo, offrire orizzonti di senso che aprano alla speranza e impegnarsi in atteggiamenti e comportamenti concreti che sostengano la speranza. Umanamente parlando, la speranza non è un oggetto che si possiede e può essere dato. È piuttosto un esercizio che ciascuno deve fare a partire dalla scoperta di orizzonti che lo tengono in tensione, nonostante il rischio di illusioni o inganni. Eppure c’è bisogno di testimoni che possano in qualche modo indicare la direzione, mostrare delle certezze, lasciare trasparire la presenza di Chi è la propria speranza e rafforzare il senso di abbandono nella sua provvidenza. Infine chi ha speranza cristiana si impegna in gesti e condotte concrete. Da quanto detto prima, ne viene fuori che il primo modo di riscaldare la speranza è stare accanto. Il racconto dei “disperati di Emmaus” ci insegna che per ripartire senza indugio, i due discepoli hanno dovuto riconoscere in una luce nuova quello che sapevano materialmente, senza capirne il senso di quanto accaduto; e per ricomprendere in modo nuovo il significato di quanto accaduto, essi hanno avuto bisogno di un viandante che restasse con loro, gli offrisse un nuovo orizzonte di interpretazione, convertisse la loro mente, li guarisse dalla delusione e riscaldasse il loro cuore ferito. Specialmente nella disperazione che viene dalla solitudine- fisica, sociale, affettiva ma anche spirituale- o dalla sofferenza e dallo smarrimento che essa provoca. L’essere-con potrà essere vissuto come consolazione e, quindi, come presenza che rimane, accoglienza che cura, vicinanza che consola, relazione che riannoda i frammenti. In situazioni di confusione, di disagio, di abbandono…. Il desiderio di esserci chiede la scelta di investire sulle relazioni come modo concreto per sostenere la speranza oltre i bisogni materiali. Se la speranza cristiana si esercita attivamente mediante la carità e l’attenzione verso il prossimo, essa si esercita anche passivamente mediante la pazienza e la resistenza. La pazienza perché se il credente è certo che Dio realizza le sue promesse, fugge la tentazione di trovare sicurezza nel possesso. La resistenza perché viviamo in un contesto che sopprime la speranza, molte volte la interrompe sul nascere e non si fa eco sulle cose positive. Per finire: si parla di educazione come un atto di speranza. Cosa significa? Frequentare persone che custodiscono nel loro cuore lo stupore, coltivare ideali che permettano di vivere per qualcosa che superi l’immediatezza, maturare scelte libere e consapevoli che, facendo memoria del passato portino a prendersi cura del presente e lo proiettino verso il domani, cercare insieme per trovare soluzioni, fidarsi di Dio, riconsegnando tutto a lui nella preghiera e credendo all’esistenza di una creazione che si estende fino al suo compimento definitivo.