dott.ssa Carmela Genovese

Dall’ inizio della crisi sanitaria in Italia, una delle conseguenze più trascurate a livello sociale è il malessere psicologico diffuso che l’epidemia ha provocato in gran parte della popolazione, ma c’è anche un altro aspetto che è quello della “negazione e della rimozione”. La pandemia ci mette in contatto con la morte, mette in crisi il nostro senso dell’esistenza, ma una delle reazioni possibili a questo è la rimozione, fino ad arrivare ai fenomeni di negazionismo, di chi minimizza il pericolo o mette in atto comportamenti antisociali, come la trasgressione delle norme di sicurezza”.

Per la Psicologa, in questo momento gli individui fanno fatica ad associare la loro situazione di sofferenza alle condizioni generali prodotte dalla pandemia. “In parte questo è frutto di una finta normalità alla quale siamo tornati, anche se lavoriamo o facciamo le nostre attività, la situazione non è tornata come prima dell’epidemia”. In questo momento il primo sforzo del terapeuta deve essere quello di mostrare alle persone la connessione tra i sintomi riportati dagli individui e il quadro generale. Mentre in Italia si registravano i primi casi di covid-19, il 26 febbraio sulla rivista scientifica The Lancet veniva pubblicato uno studio sull’impatto psicologico delle epidemie del passato come quelle di sars, ebola, mers o la cosiddetta influenza suina. In ognuno di questi casi infatti è stata adottata la quarantena come metodo per ridurre i contagi. In tutte le epidemie esaminate dallo studio, l’isolamento ha prodotto una serie di disturbi psicologici tra cui stress post-traumatico, confusione, rabbia, paura e insonnia. Com’era prevedibile anche con il coronavirus è successo qualcosa di simile. La maggior parte delle persone racconta che la vita sembra aver perso di significato, fa fatica a trovare un senso, a progettare il futuro, in una situazione in cui tutto sembra più precario e imprevedibile. Improvvisamente la vita di tutti noi è cambiata: dal mese di febbraio si sono susseguiti una serie di Dpcm (Decreti Ministeriali del Presidente del Consiglio) dal contenuto sempre più restringente, passando dall’epidemia alla pandemia: ci hanno detto di non recarci più a lavoro, di non andare più a scuola, gradualmente di non recarci più in palestra, di non andare più a correre, o al centro commerciale, ai giardinetti, di non incontrare più gli amici, né tantomeno i nostri cari. In questa escalation di privazioni, il sentimento prevalente ad aver dominato è stata la paura. Di conseguenza, la priorità assoluta è divenuta preservare il bene primario, la vita. Restando chiusi in casa, uscendo solo per motivi strettamente necessari, e con le dovute cautele (mascherine e guanti entrati ormai a far parte del nostro abbigliamento), si riduce il rischio di essere contagiati. Improvvisamente la tecnologia è diventata la nostra migliore alleata, non che prima non lo fosse, costringendo anche chi aveva poca dimestichezza con smartphone, tablet e pc a familiarizzare con essi, con lo scopo comune di restare “collegati” con il mondo. Ecco allora che si è iniziato a lavorare da casa con la formula dello smart-working, gli studenti hanno iniziato a fare scuola in videoconferenza, tutti siamo ricorsi alle videochiamate per poter comunicare e restare in rete. Ed anche le sedute psicoterapiche, si svolgono in modalità da remoto. A breve termine c’è chi può aver beneficiato di questa spina staccata, sicuramente i bambini, finalmente a casa con mamma e papà e non più sbalzati tra nido, scuola e nonni. Gli stessi bambini che non riescono a spiegarsi e rappresentarsi questo cambiamento repentino, che relegati in casa non capiscono perché non possono più andare fuori a giocare, non possono più incontrare i compagni, o andare dai nonni. Tutti siamo magari stati “contenti” di poterci riposare un po’, ma nessuno immaginava inizialmente tutto questo, nessuno immaginava la gravità della situazione e il suo perdurare così a lungo. Ogni giorno veniamo bombardati da informazioni e la speranza è che ci venga detto che è tutto finito e possiamo finalmente riappropriarci della nostra vita. Invece no, tra informazioni spesso divergenti tra loro, la vecchia vita sembra ormai un ricordo lontano e tutti siamo chiamati a riformulare le nostre priorità e le nostre abitudini. Allora ecco che si insinua la paura, perché la mente umana ha paura dell’ignoto, il non conosciuto: ci affidiamo a ciò che conosciamo perché ci fa sentire sicuri, tranquilli, protetti, perché ci permette di poter prevedere le conseguenze, rinunciando ad esplorare ciò che è posto in ombra, ciò che è sconosciuto o poco noto, proprio perché riduce la nostra capacità di predire, agire, reagire. Ma siamo davvero pronti? Davvero non vediamo l’ora di riaccendere i motori? Sicuramente c’è bisogno di ripartire, in primis per ragioni economiche, dato lo stallo nel quale siamo confinati. Ma teniamoci pronti perché il mondo non sarà come lo abbiamo lasciato: la spensieratezza che fino a gennaio connotava ciascuno di noi, ha lasciato il posto alla paura. Si ha paura di andare al supermercato, si avrà paura di prendere un mezzo pubblico, si avrà paura di incontrare un amico, si avrà paura di fare qualsiasi cosa che prima era automatica. Nel prossimo futuro ogni nostra azione diverrà ragionata e dovremo imparare a convivere con emozioni quali l’ansia, l’angoscia, la tristezza. La mente umana necessita di tempi adeguati per metabolizzare gli eventi, darvi un senso ed accettarli: il COVID-19 rappresenta sicuramente un trauma per ciascuno di noi, esso ha posto una frattura tra un prima e un dopo. Infatti nella vita che vivremo la memoria ci riporterà costantemente ai momenti pre-pandemia e non potremo non provare un senso di sopraffazione perché la nostra capacità di autodeterminazione verrà messa a dura prova. In seguito all’esposizione a eventi del genere è possibile sviluppare un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS). Infatti, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione (DSM-5) riconosce tra i criteri per la diagnosi come la persona debba essere stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:
- la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri;
- la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore.
La parola d’ordine, allora, sembra essere la resilienza, intesa come capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici e/o stressanti, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità, senza soccombere. È imprescindibile non lasciarsi abbattere dal cambiamento, ma trarne insegnamento per la vita futura e le nuove generazioni.