di Roberto Bonin

Non solo nuove regole e imposizioni a livello legislativo, sociale e sanitario, ma anche – e soprattutto - nuove abitudini e nuovi stili di vita. La pandemia di Covid-19 ha radicalmente stravolto le nostre vite, costringendoci a nuove metodiche che, fino a qualche tempo fa, erano del tutto impensabili, se non addirittura inconcepibili.

Tra i settori maggiormente travolti da questo vero e proprio “tsunami” compaiono sicuramente il lavoro e la formazione che, grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, sono stati costretti ad adattarsi a nuove metodiche e procedure, assumendo un’identità del tutto nuova e innovativa, più spiccatamente mobile e ubiquitaria, o – come ormai si ama definirla – “smart”. I benefici apportati da questa improvvisa corsa alla digitalizzazione – o, “digital jump”, come l’ha ribattezzata qualche addetto ai lavori - sono stati senz’ombra di dubbio notevoli (forse una delle pochissime cose “positive” che ha portato questo maledetto virus, nda), basti pensare che – come ha potuto constatare la nota casa costruttrice di smartphone franco-cinese Wiko in un suo recente sondaggio – più di ¾ degli utenti considera questo balzo in avanti nell’uso della tecnologia assolutamente positivo, soprattutto per gli utilizzatori senior, ossia quelli di età più avanzata, che, grazie a questa spinta, si sono potuti sentire meno soli.
Addirittura, il ricorso allo smart working avrebbe non pochi effetti benefici addirittura sull’ambiente: da uno studio di Carbon Trust, commissionato dal Vodafone Institute for Society and Communication è infatti emerso che, con queste nuove abitudini di lavoro, il nostro Paese potrebbe in futuro risparmiare fino a 8,7 megatonnellate di anidride carbonica equivalente all’anno, pari a 60 milioni di voli passeggeri da Londra a Berlino. In pratica, per ogni persona che lavora in modalità agile in Italia il risparmio sarebbe equivalente a oltre una tonnellata di anidride carbonica, pari a più di sette voli passeggeri da Berlino a Londra.
Ma se tutti quanti dobbiamo ringraziare il Cielo per aver avuto la fortuna di vivere nell’era dell’informatica e della cibernetica che ha potuto mettere al nostro servizio strumenti di comunicazione, studio e lavoro così avanzati e performanti, è altrettanto vero che il loro
uso esagerato e incontrollato potrebbe provocare non pochi problemi, così come ha saputo ben sintetizzare il famoso editorialista americano Harvey Mackay nella una sua ormai celebre frase: “La tecnologia dovrebbe migliorare la tua vita, non diventare la tua vita”. Da qui, difatti, abbiamo imparato a conoscere nuovi termini come “technostress”, utilizzati per indicare gli effetti negativi dovuti all'utilizzo delle nuove tecnologie; condizione che, nel 2007 è stata riconosciuta addirittura come malattia professionale e, di conseguenza, contenuta nell’obbligo di valutazione dei rischi ai sensi del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro. Non solo. Proprio in merito all’uso non consapevole degli strumenti tecnologici, vere e proprie condizioni patologiche come la “IAD – Internet Addiction Disorder”, la dipendenza da Internet, o la “nomofobia”, l’ansia di non essere online o rintracciabili.
Sono difatti davvero numerosi gli studi scientifici che hanno dimostrato che l’utilizzo eccessivo di smartphone, gaming, internet e social network provoca effetti sullo sviluppo cerebrale. In particolare, negli adolescenti con dipendenza marcata da smartphone sono
state osservate modificazioni della materia bianca simili, almeno in parte, a quelle riscontrate in soggetti con dipendenza da internet. Secondo uno studio condotto dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, nella fase più acuta della pandemia sono stati 6,58 milioni i lavoratori che si sono dovuti adattare al remote working. E la costante obbligata interazione uomo-macchina, imposta per necessità anche a soggetti non adeguatamente preparati, ha indotto proprio l’acuirsi di forme di tecnostress. A causa dell’improvvisa pandemia, milioni di italiani si sono così trovati a all’improvviso a doversi ritagliare una postazione di lavoro tra cucina, camera da letto e soggiorno. Soluzioni del tutto improvvisate che, ovviamente, mal si sposano proprio con la sicurezza sul lavoro: oltre alle difficoltà nella gestione dei corretti orari di lavoro, e delle sempreconsigliate pause, ben il 63% degli smartworker interpellati dalla community online Top Doctors ha ad esempio riscontrato, a vari livelli, una o più problematiche direttamente collegate alla propria mansione. In particolare, i disturbi più frequenti sono risultati essere tensioni alla zona di spalle e collo, mal di testa frequente, occhi lucidi oppure secchi, mal di schiena, pesantezza e gonfiore alle gambe.
Alcuni numeri rilevati da Microsoft tra il febbraio 2020 e il febbraio 2021, intervistando oltre 31.000 lavoratori connessi alla sua piattaforma danno una stima di questo impatto: 40 miliardi di e-mail, più 148% di meeting online, più 45% di chat a settimana e più 42% di chat fuori l’orario di lavoro. Decisamente interessanti – per non dire emblematici – i risultati emersi dalla ricerca “Impacts of Working from Home during Covid-19 Pandemic on Physical and Mental Well- Being of Office Workstation Users” condotta online tra il 24 aprile e l’11 giugno del 2020 con un campione finale di 988 interviste, che ha evidenziato come il 64% degli intervistati in smart working ha dichiarato di aver sviluppato almeno un nuovo problema di salute fisica, mentre il 75% ha affermato di avere un nuovo problema di salute mentale, come ansia, stress, sintomi depressivi e simili. Ben il 75% dei partecipanti ha anche dichiarato di
aver modificato i propri orari per venire incontro alle esigenze dei colleghi, oltre che ad aver aumentato in media di 1,5 ore il tempo trascorso davanti al computer. Durante lo scorso anno - quello sicuramente più condizionato dalla pandemia di Covid-19 - l’utilizzo del computer e dei telefoni cellulari è aumentato esponenzialmente a livello globale. Secondo i dati emersi da un recente studio di Lenstore, il 76% della popolazione mondiale tra i 16 ed i 24 anni trascorre più tempo di fronte agli schermi, mentre il 45% ha aumentato il tempo speso sul computer portatile. Inoltre il 34% della popolazione mondiale tra i 16 e i 24 anni ha aumentato il tempo speso a guardare la TV, mentre il 22% spende più tempo sui tablet. Ancora più preoccupanti sono i dati emersi da un’indagine commissionata dal noto portale di comparazione prezzi Facile.it agli istituti di ricerca mUp Research e Norstat e realizzata su un campione rappresentativo della popolazione nazionale, che riporta come quasi 1 italiano adulto su 2, ovvero circa 19,5 milioni di persone, ha dichiarato di utilizzare il cellulare anche a letto. Pochi meno, quasi 11 milioni, sono invece coloro che, addirittura,
hanno ammesso di portarselo sempre dietro, persino anche quando sono in bagno.

E non finisce qui. Se non suscita particolare clamore il fatto che il luogo in cui si usa maggiormente il cellulare sia il salotto, fa decisamente riflettere che siano più di 19 milioni gli italiani che utilizzano il cellulare mentre sono a letto; accendere il cellulare, insomma, è la prima cosa che molti fanno quando aprono gli occhi e spegnerlo l’ultima prima di dormire. Quasi 2 milioni sono invece coloro che hanno ammesso di usare lo smartphone a tavola, percentuale che quasi raddoppia nella fascia di età 35-44 anni.
Tutti rischi per la nostra salute che, a carico dei più giovani, possono rappresentare una vera e propria minaccia alla loro crescita e sviluppo, così come denuncia la Società italiana di pediatria che ha evidenziato come ben l’85% dei giovanissimi italiani, tra gli 11
e i 17 anni, usano lo smartphone ogni giorno, e il 60% di loro lo controlla appena sveglio e prima di andare a dormire. Una diffusa compulsione che comporta una perdita di quasi 7 ore settimanali di sonno, nonché il rischio di una vera e propria dipendenza da
smartphone, che appare addirittura triplicato nel caso delle adolescenti di sesso femminile. Anche in questo senso, la famigerata DAD, o Didattica A Distanza, non si è di certo risparmiata, causando – oltre ai problemi dovuti alla scarsità e all’inadeguatezza della
strumentazione e delle infrastrutture della scuola italiana e alle evidenti difficoltà degli insegnanti nel coinvolgere e sensibilizzare gli alunni e le rispettive famiglie – non pochi rischi per la salute psico-fisiche dei più giovani. A tal proposito, uno studio recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “JAMA Oftalmology”, che ha analizzato 120mila bambini cinesi di 10 scuole diverse tra i 6 e i 16 anni, ha registrato nel 2020 un aumento della miopia 3 volte superiore rispetto agli anni precedenti, complici proprio il lockdown e la didattica a distanza, e questo soprattutto nei bambini più piccoli. E se in passato si dava per scontato che la miopia fosse geneticamente determinata, e quindi non vi si potesse intervenire in modo efficace, oggi la ricerca scientifica evidenzia la corresponsabilità dei nuovi stili di vita e di cause ambientali. Tra queste, il minor tempo trascorso all’aria aperta, la mancanza di luce naturale e un uso intensivo della tecnologia che vede, soprattutto nelle nuove generazioni, un’attività visiva sempre più prossimale e più prolungata davanti agli schermi di Tv, tablet e smartphone. Come in tutti gli aspetti della vita di tutti i giorni è quindi sempre bene utilizzare del sano “buon senso” e dare alla tecnologia il giusto valore che merita, tenendo sempre fede a ciò che il grande magnate americano Henry Ford soleva dire: “C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”, rimarcando l’importanza di combattere il vero grande nemico dell’era tecnologica, ossia il “digital divide”, di cui il nostro Paese soffre ancora.